Come non insegnare l’evoluzione

Breve catalogo di “equivoci” che vengono comunemente commessi quando si parla di evoluzione.

di Marco Ferraguti

Insegnare biologia dell’evoluzione è un lavoro molto difficile, perché al tema dell’evoluzione se ne intrecciano spesso altri, che magari non hanno alcuna attinenza. Ne era consapevole lo stesso Charles Darwin che, in un una lettera al biologo Thomas H. Huxley, nel 1871 scriveva “sarà una lunga battaglia, dopo che saremo morti e sepolti... Grande è il potere del travisamento”. Sapeva bene quali difficoltà avrebbero incontrato le sue idee.

Il fatto è che tutti parlano di Darwin, di evoluzione e di darwinismo, ma spesso lo fanno a sproposito. Per esempio, su Il Foglio, Giuliano Ferrara ha scritto: “Nell’“Origine delle specie” di Darwin non si parla mai di evoluzione, mentre la selezione naturale c’è sei volte per pagina” [1]. E ancora: “La fitness, cioè la salute di un organismo, è concetto diverso dalla salvezza di un’anima”[1].

A volte assistiamo addirittura a una distorsione, fino alla caricatura, del pensiero del naturalista. Come in questo esempio: “L’ideologia della famiglia Angela è il darwinismo estremo, l’evoluzionismo secondo il quale, copula oggi e copula domani, da una coppia di ornitorinchi uscirà Miss Italia” [2].

In errori simili cadono anche insospettabili uomini di scienza, come il matematico Piergiorgio Odifreddi, che in un’intervista sul quotidiano La Repubblica, il 6 settembre 2007 ha affermato: “Come si può intuire fin dal titolo, un corollario di questa seconda opera (L’orologiaio cieco di R. Dawkins, n.d.r.) è che la teoria dell’evoluzione fornisce una spiegazione sufficiente della nascita della vita”.

Dunque il lavoro di insegnanti e comunicatori è in salita: ogni volta che provano a illustrare la teoria di Darwin nei termini corretti, devono scontrarsi con un bagaglio notevole di preconoscenze ed errori. Cercherò di proporre una sorta di catalogo di “normali equivoci” che vengono comunemente commessi quando si parla di evoluzione.

La presunta lotta di Darwin contro Dio

Secondo alcuni Darwin era una specie di anticristo.

Nel libro Il Dio di Michelangelo e la barba di Darwin, Rosa Alberoni fa riferimento a una annotazione del 1842 (senza specificare quale) in cui Darwin “descrive con scherno tutti gli atti di Dio mentre lo immagina alle prese con la Creazione, descritta nella Genesi”.

Ma che cosa pensava davvero Darwin?

Nei suoi Taccuini, e precisamente nel Taccuino D a p.36, Darwin scrive: “Quanto è più grande dell’idea prodotta da un’immaginazione angusta che Dio abbia creato (scontrandosi con quelle leggi che proprio lui aveva stabilito in tutta la natura vivente) i Rinoceronti di Giava e quelli di Sumatra, che a partire dal Siluriano abbia prodotto una lunga successione di umili Molluschi - come inferiore alla dignità di Colui del quale si suppone abbia detto che sia luce e la luce fu”.

Del resto accanto a figure di atei militanti, come per esempio il biologo Jerry Coyne, convivono anche evoluzionisti credenti, come Francisco Ayala, il quale sostiene che non c’è incompatibilità tra fede ed evoluzionismo [3].

Ci si potrebbe chiedere come mai, allora, c’è questo atteggiamento di ostilità nei confronti dell’evoluzione, non tanto da parte della Chiesa Cattolica, ma da parte di alcune frange di essa. In un articolo di Julio Loredo sulla rivista “Radici cristiane”, dal titolo Dalla scienza un secco rifiuto dell’evoluzionismo, leggiamo: “Ma, se l’attuale natura umana è il risultato di un processo evolutivo, non v’è nessun motivo per non credere che esso continuerà fino a generare una natura diversa, sollevando il problema della vigenza della stessa legge morale”. Ovvero, se l’evoluzione fosse vera, in futuro sarebbe possibile che ciò che affermiamo oggi non abbia più senso. Quindi l’evoluzione non può esistere: altrimenti noi in che cosa crediamo?

Un grandioso dispiegamento

L’espressione “grandioso dispiegamento” è presa dal celebre biologo Stephen Jay Gould. Che cosa significa?

Se volessimo rappresentare il processo evolutivo in forma corretta dovremmo ricorrere a dei cespugli. Invece, esso è comunemente rappresentato in modo lineare e i cespugli diventano scale. Tutti abbiamo in mente l’immagine della scimmia che, per adattamenti successivi, diventa uomo.

Tutto questo è scorretto e non corrisponde alla realtà.

La visione della natura come una scala è con noi da tempi antichi: ne parla il filosofo e biologo Charles Bonnet nel suo Traité d’insectologie del 1745 e anche Voltaire nel Dizionario Filosofico paragona la catena degli esseri a una processione in testa alla quale sfilano i cardinali, poi i vescovi e via via fino ai preti.

I motivi di queste rappresentazioni, pur essendo errati, sono molto profondi e per questo facciamo fatica a liberarcene. Nel campo della comunicazione, per esempio, si sostiene che in questo modo le persone capiscono più facilmente una teoria complessa come quella dell’evoluzione, perché le storie lineari piacciono molto. Ma anche le soap-opera piacciono: ci sono tanti personaggi, le storie sono intrecciate, spesso con vicende drammatiche, alcune delle quali finiscono bene, altre malissimo. Soprattutto non c’è alcuno scopo finale: solo una serie di drammi intrecciati.

Se osserviamo una rappresentazione della filogenesi umana, cioè del processo di ramificazione delle linee di discendenza dell’uomo, ci accorgiamo che è piena di punti interrogativi. C’è ancora molto da chiarire. La nostra storia evolutiva è così affascinante e interessante, e allora perché dobbiamo ridurla a una banale scaletta, come quelle che vediamo sui giornali in ogni momento?

L’evoluzione non è (sempre) progresso

Mi soffermo su una definizione di evoluzione tratta da un libro, Evolution di J.M. Savage, che è stato molto importante per la mia formazione e non solo. Il biologo statunitense scrive: “Essenzialmente, il principio dell’evoluzione implica lo sviluppo di un’entità nel corso del tempo attraverso una sequenza graduale di cambiamenti, da uno stato semplice a uno più complesso”.

Qui si introduce il concetto di sviluppo progressivo nel tempo orientato verso una sempre maggiore complessità.

È davvero così? Quello descritto è certamente vero per lo sviluppo embrionale. L’evoluzione però è molto più complicata dello sviluppo embrionale e soprattutto non è in nessuna forma pre-ordinata come lo sviluppo embrionale. Le parole di Savage producono un sottile slittamento dallo sviluppo embrionale all’evoluzione.

Allora che cosa è “evoluzione”? Io seguo la definizione di Eva Jablonka, a mio avviso, molto più interessante: “Evoluzione è il [risultato del-] l’insieme di processi che hanno portato al cambiamento nella natura e nella frequenza dei tipi ereditabili in una popolazione”.

In questa definizione non si parla di complessità, di direzione, non c’è un senso, una logica generale: l’evoluzione è cambiamento e, come la storia umana, non segue una legge.

Però è vero che ci sono fenomeni di progressiva "complessificazione": senza dubbio, un batterio è più semplice di un ippopotamo o di un rinoceronte. La difficoltà è tenere insieme questi due aspetti, cioè un’idea di evoluzione che non corrisponde a una progressiva complessificazione e, al contempo, accettare che le cose siano andate così.

Come si fa a dire quale organismo è più avanzato, più complesso, o più evoluto? Tra il meraviglioso Albero della vita del 1163, raffigurato sul pavimento della cattedrale di Otranto, e L’albero della vita di Klimt del 1905, quale è più complesso, più progredito? Tra i cavalli rappresentati nella meravigliosa grotta di Chauvet, risalenti a circa 30 000 anni fa, e la Testa di cavallo di Picasso del 1962, quale è più complessa, più progredita? Chi è più complicato, più avanzato, tra la Paradisaea rudolphi e un essere umano?

Un articolo comparso nel 1996 sulla rivista Evolution, del biologo Daniel W. McShea, si intitola: “La complessità dei Metazoi e l’evoluzione: esiste un trend?”. L’articolo termina con queste parole: “È ragionevole chiedersi se questa impressione di direzionalità su grande scala sia qualcosa di più che un’illusione di massa. Ma il punto qui non è negare che esista una direzionalità. Qualcosa può aumentare. Ma è complessità?”

McShea non propone soluzioni ma solleva un problema e lancia una provocazione.

Stephen J.Gould invece propone una soluzione, che personalmente trovo fantastica.

Prendiamo uno spazio cartesiano dove troviamo la complessità e la frequenza di certe forme, e posizioniamoci nel Precambriano, cioè prima della comparsa degli organismi pluricellulari. Scopriamo un mondo dominato dai batteri. Questo è coerente con la visione tradizionale che ritroviamo in tutti i libri, e cioè che prima sono venuti i batteri, poi i protisti, poi le spugne, e così via fino al mondo dominato dall’uomo.

Ma l’immagine che ci propone Gould è molto più intrigante.

Lo stesso spazio cartesiano, analizzato nell’epoca attuale, suggerisce che i batteri sono comunque le forme più frequenti. Quindi diffondere l’idea che il mondo sia stato prima “dei” batteri, poi dei rettili, e alla fine dei mammiferi è falso: il mondo continua a essere dominato dai batteri.

Naturalmente i batteri, che sono gli esseri più antichi comparsi sulla Terra, si sono modificati in molti modi diversi mutando in tutte le direzioni, ma le mutazioni hanno incontrato un ostacolo: il muro della complessità minima al di sotto del quale non c’è vita. Dunque, muovendo in ogni direzione, le mutazioni si sono scontrate da una parte con il muro e sono state assorbite nello spazio occupato dai batteri, mentre dall’altra hanno dato vita a organismi sempre più complessi. Quindi il trend esiste: appare a noi a causa del muro della minima complessità. Come dire che le “esplorazioni evolutive” che originano qualcosa di nuovo, diverso dai batteri, devono necessariamente andare nella direzione di una maggiore complessificazione.

Evoluzione non è sopravvivenza del più forte

Uno degli aspetti più dibattuti della teoria di Darwin è la lotta per la sopravvivenza. Il 27 novembre 1999, in una conferenza all’Università della Sorbona dal titolo Verità del Cristianesimo, l’allora cardinale Josef Ratzinger, non ancora papa Benedetto XVI, argomentò contro la teoria darwiniana: “Ma questo ethos dell’evoluzione, che trova ineluttabilmente la sua nozione chiave nel modello della selezione, e dunque nella lotta per la sopravvivenza, nella vittoria del più forte, nell’adattamento riuscito, ha da offrire ben poche consolazioni. Anche laddove si cerchi di imbellirlo in diversi modi, resta sempre un ethos crudele”.

Un punto di vista che incontra il favore anche di alcuni esponenti della comunità scientifica, come, per esempio, il professore Giuseppe Sermonti, che in una intervista del 2009 alla rivista Radici Cristiane, sostenne: “La prima delle ragioni per dimenticare Darwin è proprio quella etica. Egli sosteneva che tra gli uomini ci debba essere lotta aperta e competizione: ciò è un principio aberrante”.

In entrambi i casi ci troviamo di fronte a pericolosi miscugli tra morale e scienza, in cui si respinge Darwin non perché sbagliato, ma perché eticamente aberrante.

Ma è vero che l’evoluzione è la lotta per la sopravvivenza alla fine della quale è sempre il più forte a vincere?

Nel capitolo terzo dell’Origine delle specie, Darwin ha scritto: “Debbo premettere che uso il termine Lotta per l’Esistenza in un senso lato e metaforico, che comprende la dipendenza di un vivente dall’altro e, cosa ancor più importante, non solo la vita del singolo, ma il suo successo nel produrre discendenti”.

Darwin non nega che nella lotta per l’esistenza ci sia il sangue, ma ci sono anche legami sociali forti che assicurano un successo riproduttivo migliore, come avviene, per esempio, per le popolazioni di macachi.

L’importanza ai fini evolutivi di legami sociali all’interno di una comunità, contrapposti al primato del più forte, contraddice questo genere di considerazioni etiche sulla “lotta per l’esistenza”.

Considerazioni etiche che riflettono un punto di vista personale. John B. S. Haldane, un grande evoluzionista e anche un miscredente del secolo scorso, introduce il capitolo 5 del suo libro The Causes of Evolution con le parole tratte dalla Bibbia (Qoelet 9, 11): “Un’altra cosa ho visto in questo mondo: in una corsa non vince sempre il più veloce, in una battaglia non vince sempre il più forte”.

A volte anche una poesia può essere d’aiuto:

D’un tratto la beata immobilità viene turbata.

Due esseri che vogliono vivere scattati nella corsa.

Un’antilope in fuga impetuosa

e dietro una leonessa ansante e affamata.

Al momento le loro chances sono pari.

La fuggitiva è perfino in vantaggio.

E se non fosse per quella radice

che spunta dal terreno,

e se non fosse per l’inciampare

di uno dei quattro zoccoli,

se non fosse per il ritmo spezzato

d’un quarto di secondo,

di cui approfitta la leonessa

con un lungo balzo -

Alla domanda - di chi la colpa,

nulla, solo silenzio.

Incolpevole il cielo, circulus coelestis.

Incolpevole la terra nutrice, terra nutrix.

Incolpevole il tempo, tempus fugitivum.

Incolpevole l’antilope, Gazella dorcas.

Incolpevole la leonessa, leo massaicus.

Incolpevole l’ebano, Diospyros mespiliformis.

E l’osservatore che guarda con il binocolo,

in casi come questo,

Homo sapiens innocens. [4]

L’evoluzione non è solo selezione naturale

In conclusione, vorrei affrontare questo argomento: non tutto ciò che si verifica nell’evoluzione è determinato dalla selezione naturale. Lo scriveva lo stesso Darwin: “Nella prima edizione del mio Origine delle specie ho forse dato eccessiva importanza all’azione della selezione naturale o alla sopravvivenza dei più adatti. Ho mutato la quinta edizione dell’Origine in modo da limitare le mie osservazioni a quei mutamenti di struttura passibili di adattamento […], non ho considerato a sufficienza l’esistenza di quelle strutture che per quanto possiamo giudicare al momento, non sono né benefiche né dannose; credo che questo sia uno dei maggiori errori, tuttora evidenti, della mia opera" [5].

Un esempio? Eccolo. Confrontiamo il mento dello scimpanzé e quello dell’uomo. Notiamo che quello dello scimpanzé non è sporgente come quello dell’uomo: l’angolo fra la linea del mento e la base della mandibola, infatti, è ottuso nello scimpanzé, mentre è acuto in quello dell’uomo. Possiamo dunque dire che il mento umano non è un prodotto della selezione naturale, ma un sottoprodotto della riduzione del campo alveolare (cioè dei denti). Per semplificare, la dimensione dei nostri denti si è ridotta per pressione selettiva, a causa della diversa alimentazione. Riducendosi la parte occupata dai denti, è spuntato il mento, che dunque ha caratteristiche che derivano dal fatto che il campo alveolare è diminuito perché si è ridotta la dimensione dei nostri denti. In questo senso, la riduzione della dimensione dei denti è il prodotto della selezione, mentre le mutate caratteristiche del nostro mento rappresentano un sottoprodotto.

Bibliografia

1. G. Ferrara, Le suore darwiniane, Il Foglio, 3 maggio 2010

2. C. Langone, Libero-news.it, 29 settembre 2009

3. F. J. Ayala, Il dono di Darwin alla scienza e alla religione, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 2009

4. W. Szymborska, Avvenimento, in Due punti, Adelphi, Milano 2006

5. C. Darwin, On the origin of man (1871), pp. 152 – 153

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Pubblicato online su "Linx Magazine" (Pearson Italia), vol. 16, ottobre 2013 (pearson.it/BF91989).