Perché sui media anche gli asini volano?

Riflessione sul ruolo di media e scuola nella costruzione della cittadinanza scientifica.

di Pietro Greco

Perché sui media anche gli asini volano? Vorrei parlare di questo tema affrontando due aspetti: perché i media spesso ci raccontano che gli asini volano, anche se sappiamo che non è così, e perché i media ci danno la possibilità di raccontare come gli asini volano e, quindi, di raccontare una realtà che non esiste.

Per affrontare meglio la questione, però, bisogna partire da lontano, raccontando una storia di grandi cambiamenti dell'umanità. Vediamo.

La bontà della cultura

Non troppo tempo fa, qualcuno ha sostenuto che con la cultura non si mangia. Qualcuno, per inciso, che ha dovuto governare l'economia di un grande paese industriale (il riferimento è all'ex ministro dell'economia italiano Giulio Tremonti, NdR). Ebbene, questa persona non si è accorta che in tutti o quasi i paesi industriali avanzati, circa il 60% dell'economia si fonda sulla cultura, in un modo o nell'altro. Un 30% si fonda sulla innovazione tecnologica e la produzione di beni e di servizi ad alta tecnologia, un 15% si fonda sulla cultura umanistica e un altro 10-20% su culture tecniche, per esempio la sanità. Ecco, tutto questo messo insieme nella maggior parte dei paesi significa il 60% dell'economia, e persino nel nostro paese, che pure a qualcosa ha rinunciato, significa il 40-45% dell'economia. Quindi mi lascia molto perplesso un economista che dice che con la cultura non si mangia!

Ed è un fatto ancora più grave se si considera che negli ultimi 50-60 anni, e con una forte accelerazione negli ultimi 20-25 anni, il mondo è andato proprio verso la società e l'economia della conoscenza. Chi fosse attento, tra i nostri economisti e politici che si occupano di economia, saprebbe che questo passaggio è la terza grande transizione nella storia dell'umanità. Chi non si accorge di questo non si accorge di un evento “epocale”. Noi giornalisti usiamo spesso il termine "epocale" a sproposito, però molti sostengono che tre sono sostanzialmente stati i grandi passaggi nella storia economica dell'essere umano.

Verso la società della conoscenza

Il primo risale a circa 10000 anni fa e coincide con l'uomo che, da cacciatore e raccoglitore, inizia ad allevare animali e a coltivare piante. È una grande transizione economica, ma anche sociale e culturale. Anche da un punto di vista semplicemente demografico lo sviluppo è stato enorme. Pensate che prima di 10000 anni fa in tutto il pianeta, che era già stato colonizzato quasi per intero da Homo sapiens, vivevano circa 5-10 milioni di individui. All'epoca dell'Impero Romano,ne vivevano circa 350-400 milioni, con un aumento di un ordine di grandezza o due.

La seconda grande transizione, 250-330 anni fa, è quella dell'economia industriale, del mondo delle macchine. Consideriamo di nuovo il dato demografico: eravamo un miliardo nell'anno 1800, siamo sette miliardi adesso e arriveremo, dicono i demografi, a circa 9-10 miliardi entro il 2050. Ancora una volta un aumento di quasi un ordine di grandezza della popolazione umana.

Io non penso che la terza, grande transizione, che è quella all'economia della conoscenza, porterà un'analoga trasformazione demografica, anzi forse per la prima volta sperimenteremo un mondo in cui ci sarà una sostanziale stabilità demografica. Ma anche in questo caso cambierà qualcosa e dovremo imparare a governare una società anziana: a partire dal 2050 una parte importante, forse dominante, della popolazione avrà un'età superiore ai 50-60 anni. Quindi dovremo imparare a vivere in una società anziana. Per fortuna la conoscenza ci aiuta.

La conoscenza scientifica del mondo

Cos’è la conoscenza? Certo è un concetto difficile da descrivere, però con uno sforzo riduzionista possiamo dire che una parte importante della conoscenza umana, soprattutto negli ultimi 300-400 anni, è data dalla conoscenza scientifica del mondo. Secondo il sociologo Luciano Gallino questa cammina su due gambe: la produzione di nuove conoscenze scientifiche, che ha un valore culturale ma anche squisitamente economico, e l'innovazione tecnologica, che pesca in maniera sistematica nella nuova conoscenza scientifica. Ogni volta che io produco nuova conoscenza scientifica, so che di lì a poco tempo questa si tradurrà in innovazione tecnologica.

Più soldi per la ricerca

La nuova conoscenza scientifica sta dunque rimodellando il mondo, ed il mondo si sta rimodellando sulla produzione di nuova conoscenza scientifica. Ancora una volta in termini quantitativi, secondo i dati della National Science Foundation americana, negli ultimi 20-25 anni ci sono stati tre passaggi importanti. Il primo è l'aumento quantitativo delle risorse che il mondo impegna nella ricerca scientifica e nello sviluppo tecnologico: circa il 2% del PIL mondiale, oggi. In termini assoluti significa che nel 1990 gli investimenti assommavano in tutto il mondo a 400 miliardi di dollari, mentre oggi assommano a 1400 miliardi di dollari, a parità di potere d'acquisto.

Il secondo elemento è la forte crescita degli investimenti da parte di privati, soprattutto nello sviluppo tecnologico. Negli anni '60 per esempio, negli Stati Uniti si investivano due dollari pubblici in ricerca e sviluppo ogni dollaro privato, quindi c’era una prevalenza del pubblico. Oggi negli Stati Uniti, ma un po' in tutto il mondo, anche se con due eccezioni, la situazione è completamente ribaltata: per ogni dollaro pubblico ce ne sono due privati. Le due eccezioni sono costituite dal Giappone, in cui gli investimenti privati sono di gran lunga superiori a quelli pubblici, anche se quelli pubblici, sia in termini relativi che assoluti sono enormi rispetto ai nostri, e dall'Italia, in cui al contrario gli investimenti privati quasi non esistono.

L'Europa perde il primato

La terza e grande novità degli ultimi 20/25 anni, quella che io considero almeno in termini probabilistici la più promettente, è che la ricerca scientifica e tecnologica ha cessato di essere un gioco che si gioca tra le due sponde dell'Atlantico settentrionale, con l'eccezione del Giappone, ed è diventato un gioco sempre più multipolare. Ancora qualche numero: solo 10 anni fa gli scienziati erano in tutto il mondo circa quattro milioni, oggi sono oltre sette milioni. La gran parte di questa crescita è avvenuta in Asia, tanto che oggi l'Asia è il continente che fa, in termini di risorse umane, più ricerca scientifica, mentre in termini di risorse finanziarie il primato spetta ancora al nord America, grazie agli Stati Uniti. L'Europa è terza: se riflettiamo, tra il '600 e l'inizio del '900, diciamo fino al 1932-1933, l'Europa aveva quasi il monopolio della ricerca scientifica nel mondo.

Poi c'è stato quello che qualcuno ha definito il più grande regalo di Hitler agli Stati Uniti d'America: le famigerate leggi razziali, che hanno costretto una parte rilevante dell'intellighenzia europea, in particolare dell'intellighenzia scientifica, a emigrare negli Stati Uniti. Da quel momento, l'asse scientifico del mondo si è spostato. Oggi siamo appunto in una situazione di pluralismo molto, molto accentuato, e l'Europa fa fatica a tenere il passo con il resto del mondo. Se il mondo mediamente investe in ricerca e sviluppo il 2% del PIL, l'Europa investe tra l'1,7 e il 2%. Insomma, è un continente che non sa più riflettere sulla sostanza della sua identità.

Fuori dalla torre d’avorio

Il mondo è cambiato e la scienza ha dato un contributo formidabile, non solo in termini economici. Basti pensare a quanto la scienza ha cambiato la nostra immagine del mondo, negli ultimi tre o quattrocento anni: quale altra dimensione della cultura umana ha contribuito a cambiare l’immagine del mondo in maniera così profonda? Questi cambiamenti hanno fatto sì che i rapporti tra scienza e società mutassero enormemente. Per molti decenni gli scienziati hanno potuto vivere in una torre d’avorio, nel senso che la gran parte delle decisioni rilevanti per lo sviluppo della scienza venivano prese all’interno della comunità scientifica senza subire grandi interferenze da parte degli Stati, e meno ancora dei privati. Gli Stati si comportavano sostanzialmente come mecenati: spendevano pochi soldi, lasciando libertà agli scienziati di fare le loro ricerche; l’importante era che insegnassero nelle università e formassero i nuovi tecnici.

Ora il rapporto è diverso: i soldi sono molti di più e in cambio gli scienziati devono garantire risultati. Per gli Stati intelligenti, i risultati consistono in nuova cultura scientifica, non solo utilità immediata: negli Stati Uniti una quota parte degli investimenti pubblici, almeno il 20%, deve essere dedicato alla ricerca di base o alla ricerca curiosity driven, cioè diretta dalla curiosità. Quella quota parte è assolutamente essenziale. Diceva il matematico Vannevar Bush, consigliere del presidente Roosevelt: “Quello è il motore, la ricerca di base, la ricerca che non ha una immediata applicazione, state certi che quello è il motore di tutto”.

La torre d’avorio non basta più agli scienziati, ovvero le decisioni rilevanti per lo sviluppo della scienza non vengono prese solo dalla comunità scientifica, ma in senso più ampio dalla società nelle sue diverse articolazioni: gli Stati, le imprese, i singoli cittadini. Questo comporta gravi rischi: per esempio, se dovesse prevalere un atteggiamento demagogico, la rivoluzione scientifica può diventare, come recita il titolo di un bellissimo libro di Lucio Russo, una rivoluzione dimenticata. Se sbagliamo politica nei confronti della scienza, rischiamo di produrre una scienza che non porta risultati e, quindi, una scienza che può anche essere dimenticata. È importante avere sempre grande attenzione al valore culturale della scienza, che resta il suo primo e più grande valore, al di là del suo risvolto pratico.

Una nuova idea di cittadinanza

In questi nuovi rapporti tra scienza e società stanno emergendo anche nuove richieste di cittadinanza. I cittadini chiedono di partecipare sempre di più a scelte che hanno a che fare con la scienza e che sono sempre di più di tipo economico. Lo diceva già Francis Bacon nel XVII secolo: la scienza non deve essere a vantaggio di questo o di quello, ma deve essere a vantaggio dell’intera umanità. E Bacon era stato anche Primo ministro di Sua Maestà britannica: un uomo di parte che però aveva l’idea che la scienza dovesse essere questo e non altro.

C’è una domanda di diritti di cittadinanza di carattere sociale (la scienza deve favorire il benessere dell’intera umanità), ma anche di carattere politico (sulle grandi scelte i cittadini, i governi, le imprese, vogliono dire la loro) e culturale (i cittadini pretendono di avere accesso alla conoscenza scientifica). Il giurista Stefano Rodotà ha suggerito che nella nostra Costituzione sia aggiunto un nuovo articolo che dica che i cittadini italiani hanno diritto ad accedere a Internet, perché senza tale strumento oggi non è possibile vivere appieno la cittadinanza, una cittadinanza che è scientifica e tecnologica. Secondo Rodotà e altri giuristi europei, l’accesso alla conoscenza rappresenta un nuovo diritto costituzionale. I diritti di cittadinanza scientifica stanno acquisendo una dignità addirittura costituzionale.

Un luogo per discutere

Tutto ciò implica che la comunicazione della scienza debba diventare una comunicazione diffusa e rilevante. Senza una comunicazione diffusa, importante e ben fatta, i diritti di cittadinanza possono degenerare e dar luogo a venti demagogici molto pericolosi. Quindi, se non c’è una buona comunicazione della scienza si rischia una società in cui prevalgono i venti della demagogia.

La comunicazione è qualcosa di assolutamente importante. Se ci sono nuovi diritti di cittadinanza, in un mondo mutato, abbiamo bisogno di nuove agorà, di nuove piazze, dove questi diritti possono essere discussi, dove i problemi possono essere conosciuti, dibattuti, prima di prendere una decisione. Viviamo nel mondo della comunicazione e allora quale sarebbe la migliore agorà se non i mezzi di comunicazione di massa?

Ma gli asini volano?

Invece vediamo che sui mezzi di comunicazione di massa volano gli asini, in entrambi i sensi che ho citato all’inizio, e quindi ci troviamo di fronte a un paradosso: dobbiamo cercare altre agorà.

Ma perché i media non vanno bene per questo compito? Dovrebbero rappresentare l’agorà naturale della società della conoscenza, che è anche società dell’informazione e della comunicazione, invece i mezzi di comunicazione non funzionano, essenzialmente per due ragioni: da un lato, c’è un problema di sviluppo delle tecnologie. Le nuove tecnologie informatiche hanno devastato il mondo dei media, anche in senso creativo. Hanno creato un nuovo mondo, in cui la quantità di informazione che giunge, per esempio, nella redazione di un quotidiano è di alcuni ordini di grandezza superiore a quella che vi giungeva solo venti anni fa. Quando sono entrato per la prima volta in una redazione, alla fine degli anni ottanta del secolo scorso, c’era qualcuno che batteva a macchina, non c’erano i computer, non c’era Internet. Io dovevo trattare fino a tre notizie al giorno in un quotidiano, e avevo tempo per valutarle criticamente. Oggi arriva una quantità infinita di notizie, però le redazioni si riducono e il tempo a disposizione per valutare criticamente la singola notizia è letteralmente crollato. Si innescano automatismi, assolutamente degeneri, per cui prevale la notizia più eclatante, quella che si immagina che il lettore voglia conoscere; non è più importante che sia vera, verosimile o falsa: l’importante è che, a giudizio del redattore, rompa il muro dell’attenzione. Questo cambia molto: prima della rivoluzione tecnologica c’era l’idea che si dovesse dare la notizia più importante, sia pure secondo criteri soggettivi. Adesso bisogna dare la notizia più eclatante. L’asino che vola è una notizia eclatante, e quindi i media lo fanno volare.

L’altro aspetto, molto più importante, è che il mondo dei media è stato devastato dalla pubblicità. Un secolo fa in Italia si leggeva lo stesso numero di giornali che si leggono oggi, il numero dei lettori di quotidiani era circa uguale. Però 100 anni fa l’80% degli introiti di un quotidiano derivava dall’acquisto da parte dei lettori, quindi chi faceva il giornale si riferiva all’acquirente. Oggi l’80% della carta stampata e il 100% della comunicazione televisiva sono finanziate dalla pubblicità, il cui obiettivo non è promuovere e proporre le notizie più importanti, ma vendere un prodotto e, quindi, avere un contenitore del messaggio pubblicitario in grado di attivare l’attenzione del pubblico. La veridicità di una notizia ha un valore secondario: l’importante è che la notizia rompa il muro dell’attenzione e veicoli al meglio il messaggio pubblicitario.

Si possono individuare poi altre ragioni, ma queste sono le due principali per cui negli ultimi 25 anni il mondo dei media è profondamente cambiato e, paradossalmente, oggi volano molti più asini che cento anni fa.

La scuola come nuova agorà

Il nostro problema, allora, è trovare nuove agorà. Se l’agorà dei media non funziona, se vogliamo vivere nella società della conoscenza e avere una piena cittadinanza scientifica, dobbiamo cercare delle nuove agorà. Le nuove agorà possibili sono tante: la principale, a mio avviso, è la scuola. Se la scuola non recupera in sé questo messaggio di diffusione della cultura in generale e della cultura scientifica come inseminatrice della nostra vita a ogni livello, economico, sociale, politico e culturale, allora difficilmente usciremo: questa stagione, che ha potenzialmente tante opportunità, potrebbe diventare una stagione nefasta nella storia dell’umanità. Però non sono pessimista. Sono convinto che nella scuola e in altri settori del mondo scientifico, del mondo culturale, ci siano ancora tante forze vive in grado di trasformare questa nuova società in una società più democratica in cui il benessere spirituale prima ancora che economico dei cittadini sia magnificato e non perduto.

___________________________________________________________________________________________________

Pubblicato online su "Linx Magazine" (Pearson Italia), vol. 16, ottobre 2013 (pearson.it/BF91989).